La raccomandata

Se penso a com'ero un paio di anni fa sento ancora della tenerezza. Mi alzavo al mattino presto verso le 6 e mezza, già stanca, mi vestivo, un caffè veloce e fuori alla fermata dell'autobus che mi avrebbe portato in centro per un altro giorno di lavoro in quell'ufficio maledetto che ormai non sopportavo più.

 

I giorni erano tutti uguali: lavoro, la sera qualche volta uscivo con amici, ritrovo al bar per poi andare in qualche locale a bere o ballare, ritorno a casa, dormire ed il giorno dopo di nuovo quel lavoro, quell'ufficio. Una vita perfetta per chi, a differenza di me, non ha un lavoro, con possibilità di svago e di stare con le persone. Ma di quello svago non sapevo più che farmene, tutti mi sembravano banali, sempre i soliti discorsi su storie d'amore fallimentari, rapporti difficili, lavoro difficile, insoddisfazione, le solite battute tra colleghi e le solite frecciatine invidiose, nessun orizzonte diverso dal solito di tutti i giorni.

Lavoro in un ente pubblico, e mi occupo della contabilità. Sono entrata tramite un conoscente di mio padre, non volevo entrare nel mondo del lavoro in quel modo, ma non ho potuto oppormi, e così per molti nell'ufficio sono “la raccomandata”.

Il mio giorno lavorativo era tutto occupato dai numeri, dai bilanci, dalle tabelle, resoconti etc... non c'era spazio per altro. Con i colleghi la relazione era difficile, dopo un iniziale entusiasmo e apparente sentimento di amicizia, mi sono scontrata più volte con l'invidia e con la stupidità, sia maschile che femminile. Gli ambienti di lavoro a volte sembrano degli zoo, dove tutte le belve vivono insieme, e c'è sempre preda e predatore, mai un attimo di pace, mai un momento di leggerezza, vera, sincera, e se c'è è effimera e finirà prima o poi. Mi chiedevo perché il lavoro riducesse così, quale fosse il motivo per il quale lavorare scatenasse nelle persone i comportamenti più biechi e meschini, ma non trovavo risposta e così per non avere dubbi mi ero chiusa nel mio spazio e ruolo senza dar troppa confidenza a nessuno. Questo nel tempo aveva reso la mia vita lavorativa un inferno, un posto non accogliente, dove tutto è funzionale a qualcosa e fine a se stesso.

Quello stato mi pesava, ma non ne vedevo vie d'uscita, quel lavoro mi serviva, se non altro per mantenere la mia indipendenza, e più sentivo questo obbligo e più mi pesava, era come un vortice melmoso nel quale non riuscivo a muovermi come volevo, sospinta in modo inconsapevole nello stesso delirio dell'ambiente che mi contaminava con la sua negatività.

Più passava il tempo, più sentivo il peso di quella situazione, più stavo male e più era difficile per me anche solo immaginare una via di fuga, un possibile cambiamento. Mi sentivo quasi condannata a questa infelicità, subita e non voluta, e mi chiedevo perché fosse così, e perché proprio a me.

Avevo anche deciso di fare della psicoterapia, mi sembrava di essere depressa, e temevo che sarei peggiorata se non avessi fatto qualcosa di concreto. Gli incontri con lo psicologo erano una cosa strana, io parlavo, parlavo, lui mi ascoltava e si limitava a fare qualche domanda ma niente di più. Pagavo, uscivo e mi chiedevo cosa fosse successo. Mi sentivo svuotata, avevo scaricato un po' la molla della tensione ma non stavo meglio, anzi. Ci andai per un po' di mesi, poi decisi di lasciare, pensai che forse non faceva al caso mio l'analisi. Ne parlai anche con un'amica e mi disse che forse avevo sbagliato terapeuta, che forse ne arei potuto provare un altro, ma non volli farlo.

 

Un giorno mi arriva una raccomandata, diceva di andare a ritirare un pacco alla Posta. Andai e ritirai il pacco, era a mio nome ma proprio non sapevo di cosa si trattasse, non aspettavo pacchi in quel periodo.

La forma rettangolare piatta, leggero, proveniente dalla casa editrice Adelphi. Un libro, pensai, ma chi ha ordinato un libro? Io no. Eppure il destinatario ero io. Sono stata tentata di ridarlo indietro ma mi son detta: perché? Se è destinato a me un motivo ci sarà.

Arrivo a casa con il mio pacco in borsa, sono davvero curiosa di aprirlo.

Lo poso sul tavolo, lo lascio lì. Siamo insieme adesso, io e quel pacco.

Finalmente mi decido ad aprirlo.

C'è un libro dal titolo: “Il codice dell'anima” di James Hillman.

Non conoscevo affatto questo autore e nemmeno l'esistenza di questo libro, quindi di sicuro doveva esserci stata una confusione di nome, ma non ce la feci a non aprirlo.

Iniziai a leggere qualche riga, all'inizio l'introduzione è fatta di aforismi e frasi di vari autori, e due mi colpiscono subito in particolare, la prima è tratta dalle Enneadi di Plotino, di cui non conoscevo nemmeno l'esistenza e che diceva: “Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, è in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita: che tutti gli eventi formino una unicità e siano intessuti assieme è espresso dalle Moire”. E subito dopo trovo risposta alla mia domanda: ma chi sono queste Moire?: “Sono la forma compiuta del nostro destino, i suoi contorni. Il compito che gli dei ci assegnano e la porzione di gloria che ci consentono; i limiti che non dobbiamo oltrepassare e la fine stabilita per noi. Moira è tutte queste cose” scritta da una tale Mary Renault. Questi concetti mi sembravano enormi e strani, incomprensibili per me a quel tempo. Quel libro capii conteneva qualcosa di speciale, una qualche rivelazione e spiegazione al senso della vita, ed al senso della mia stessa. Ne lessi alcune pagine ad un certo punto si parlava di Platone e del mito di Er e ne riportava una parte per me sorprendente:

“Prima della nascita, l'anima di ciascuno di noi sceglie un'immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. E' il diamon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.” Poco dopo ancora Plotino riportava che “noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all'anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché l'ho dimenticato”.

Mi sconvolsero queste prime parole lette così a caso. Mi sembravano così potenti e lapidarie, mi sentii come sbalzata per un attimo in un'altra dimensione, così estranea dal mondo che vivevo tutti i giorni, e iniziai ad intravedere che cosa poteva voler dire immaginare e comprendere come le cose possono essere diverse da come ci sembrano e che quel libro mi stava spingendo a vedere la vita con un'altra prospettiva o con nuovi occhiali. Iniziai a capire immediatamente che quel libro diceva una cosa per me prima sconosciuta: ogni esperienza vissuta è utile e finalizzata al raggiungimento del mio scopo di vita, infatti più in là nel libro si parlerà di “immagine”, impronta di me su questa terra.

Appena dopo un aforisma di Jung (del quale avevo solo sentito parlare e del quale poi lessi molti libri) diceva: “In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell'essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.”

 

Mi appassionai alla filosofia, scoprii nelle letture che feci, come un balsamo per l'Anima, scoprii il concetto di Anima e la bellezza della conoscenza, del comprendere, del mettere a posto. Mi iscrissi alla Facoltà di Filosofia della Sapienza che sto attualmente frequentando e nonostante non sappia quanto tempo impiegherò a laurearmi mi sto godendo l'esperienza, perché sento che sto facendo crescere questa mia anima. Lavoro sempre nello stesso posto che adesso mi sembra meno ameno, perché comprendo di più e giudico di meno, ho meno aspettative ed ho imparato che se la parola arriva da una profonda conoscenza di se stessi e da una sorta di “umiltà forte” esce quasi pura, inoppugnabile e quindi comprensibile.

 

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Commenti: 3
  • #1

    Maurizio Amici (lunedì, 01 luglio 2013 16:17)

    ...ma come? Finisce così? Sembra quasi che manchi qualcosa. Il pacco col libro (per esempio) chi lo manda? Perché?

  • #2

    Su (lunedì, 01 luglio 2013 16:35)

    Eh, ma è ovvio, il libro lo ha mandato il Daimon!

  • #3

    vivianabiadenecounseling (lunedì, 01 luglio 2013 17:27)

    Grande Su. Sì sì è stato proprio lui, il Daimon che ha fatto sì che qualcun altro non ricevesse quel libro ma lo ricevesse Caterina, la protagonista di questa storia...perché? perché era il suo turno!